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5 gennaio 2010

Ritorno sul ring a quasi cinquant'anni


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Più che una promessa era parsa una minaccia. «Ho perso, ma voglio andare avanti», aveva detto dopo essersi arreso al gigante russo Valuev, sul ring di Zurigo. Poi, si sa, il tempo che passa aiuta a dimenticare. E per un anno il nome di Evander Holyfield aveva fatto capolino molto di rado. Solo ricordi, nient'altro. Ricordi legati al passato, quando la categoria dei massimi ancora faceva cassetta e non era costretta a raschiare il fondo del barile per pescare qualche campione degno di tal nome.

Lo si era rivisto in tv, pochi mesi fa, sul ring di Oprah Winfrey, regina del talk-show statunitense: lui e Mike Tyson, uno al fianco dell'altro, per un incontro di riconciliazione, ben oltre un decennio dopo il gesto più cruento che la storia del pugilato tramandi, il morso con cui un frustrato Iron Mike strappò un pezzo d'orecchio al malcapitato Holyfield. Per il resto, rare uscite pubbliche. Solo cura del privato, roba che più intricata e ingestibile non si può. Ora, invece, ecco che la promessa (o, meglio, la minaccia) diventa realtà. Ancora sul ring (il 16 gennaio), a 47 anni suonati. Per giunta, contro Francois Botha, non proprio un giovincello, visto che di anni ne ha 41. Più che un match, una patetica sfida, ennesimo capitolo di quella storia farsesca in cui la boxe spesso finisce per scadere. Va avanti, a dispetto di tutto.

Come se nulla sia accaduto, come se non abbia già alle spalle quasi un quarto di secolo di gloriosa ma dura carriera, come se non sia stato fermato nel 1994 per problemi cardiaci, come se non sia stato costretto a vivere nell'ombra del sospetto di doping, come se i familiari (buone ultime, due sorelle) non gli abbiano da tempo consigliato di appendere i guantoni al chiodo. Nulla che possa scalfirne le certezze, i progetti, le ambizioni. Il quinto mondiale dei massimi (dopo essere stato un mito tra i massimi leggeri), il suo irrinunciabile obiettivo, quello che a suo dire lo spinge a non mollare. Almeno a parole: perché cosa possa addizionare alla sua storia sportiva l'eventuale conquista del fantomatico titolo Wbf (sigla sconosciuta ai più) non è dato sapere. Dietro il desiderio mondiale potrebbe nascondersi ben altro.

Problemi economici, soprattutto. Che può anche sembrare una barzelletta per chi in carriera ha guadagnato qualcosa come 250 milioni di dollari e non è nemmeno il prototipo del pugile cattivo e ignorante, ma non lo è affatto. Certo, il buon Evander vive ancora in quella reggia con decine di stanze, 17 bagni e 3 cucine, costruita su ettari e ettari di verdi colline a sud di Atlanta. Ma non è tutto oro quel che luccica. Il ring gli ha regalato quattrini, la vita gli ha lasciato onerosi strascichi. Holyfield ha 11 figli (alcuni nati fuori dal matrimonio) e 2 exmogli da mantenere, sostanziosi alimenti da versare, aziende in rosso (in campo imprenditoriale non ha avuto i successi conseguiti sul ring) da salvare. Ma siamo alle solite. Non può essere prestigioso ma neanche ricco un match tra vecchi mestieranti del pugilato, che andrà in scena allo stadio Nambole di Kampala, in Uganda. Eddie Bazira, il promoter, parla di 80mila spettatori e contratti già firmati. Noccioline, nient'altro.

Le grandi tv ne resteranno fuori, l'eco lontana di una sfida senza significato terrà lontani gli sponsor. Pesi massimi e continente nero: ben altre pagine sono state scritte in passato. Questo è un capitolo di retroguardia, triste e malinconico, come un pugile che non s'arrende allo scorrere del tempo e calpesta il suo passato per un pugno di dollari e inutili scampoli di notorietà . IR


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